Ho scoperto che se non sei loggato, navigando sui blog wordpress (almeno quelli gratuiti), compaiono nei post dei banner pubblicitari. Roba brutta assai. Se volessi continuare a tenere gratuitamente un blog su questa piattaforma senza i suddetti banner, dovrei pagare 30 dollari l’anno. O forse anche trasferire il blog su altervista e poi spaccarmi le balle a eliminare gli script. Ho deciso che faccio prima a trasferirmi con Godi QUI: http://godialpexex.blogspot.it/
Queste sono le persone e questa e’ la gente. Inutile contrattare, chiedere di piu’ o di meno, un ideale, una scusa banale per non mischiarsi. Ognuno compie la follia delle proprie incoerenze, delle proprie illusioni e delle proprie vigliaccherie. E perche’ no, dei propri atti di coraggio, degli attimi di serenita’ benefica che giustificano ogni male. Ognuno compone la propria pazzia su quei rari momenti generosi e su milioni di altri momenti che non saprebbe ne’ vorrebbe riconoscere, dunque, e questa e’ la gente e queste sono le persone. Ogni istantanea e’ un verdetto.
A pochi centimetri dal suolo, sbalzato mentre stavi col culo sopra un ammortizzatore, ti ricordi che esiste uno spazio libero dove la gravita’ (delle cose) pare assente o annullata. Cosi’ annulli quel desiderio di scaldare il posto con le natiche, di saldarti all’asfalto o a un angolo riottoso sul quale tentavi di radicare contro ogni energia dell’universo e a suo dispetto solo pochi secondi prima, e ti abbandoni alla spinta, l’assecondi. Le voci tutt’intorno sfumano. Erano gia’ confuse, ma adesso che si allontanano ulteriormente ti assale la vertigine, come se ti ritrovassi, e da bambino, su un pallone aerostatico in fase di decollo, tu e la tua meraviglia. Sorridi. Pensi che non sei ne’ piu’ ne’ meno importante di chiunque altro al mondo e nella storia. Tu sei soltanto qui adesso.
Di quest’arte che bacia il culo alle megere, che cresce come i peli attorno alle verruche, che si arrampica, isolata, appresso all’ambizione, e si mette in listino, al metro, su un tabellone. Di quest’arte borghese, di quest’arte finto popolare, commerciale, di questa nomenclatura da gerarchia dei sogni, allevati come trote dentro un lago artificiale. Di questa atrofia. Di questo mondo che brulica senza intenzione attorno, di questi gorghi, di questi mulinelli. Di questa ingenuita’, di questa fantasia imberbe che nasce e muore continuamente. Di questo mutismo, di questo resoconto del nulla che scorre e s’accumula ai margini di un foglio. Di queste pagine che fuggono veloci. Di questo tempo e desiderio che qualcuno assale, d’essere niente piuttosto che una briciola fluorescente a consumo degli stracci inamidati e ritti. Di questo silenzio prezioso e ignorato, in cui naviga il mondo.
Notevoli sono le tracce in cima al mondo, li’ dove scie di aeroplani intrecciano le rotte con fragili fili di medusa. Sospetto, fortemente, d’essere io il giudice mandato a condannarti. E quando ripenso alle parole dette, cambio opinione sulla mia attitudine alla ragione. So che non ho un grammo di nulla che mi leghi agli umani. E che sono una accidentale macchina, piovuta dal cielo nero o salita da qualche inferno. Vado dove vuole questo tempo assurdo che attraverso. Muovo lungo spazi e corpi, eppure resto immobile, identico. In me non c’e’ anima. Non c’e’ tormento.
Vorrei una storia felice. Almeno da scrivere. Perche’ un sogno puo’ essere anche semplice. Perche’ nel fondo del corpo io ho una storia anche semplice, una richiesta facile, una direzione genuina, dritta, repentina, immediata. Come l’alito che appanna il vetro nelle sere di inverno, col volto riflesso sulla trasparenza di un mondo sconosciuto e caldo. Vorrei sognare un sogno semplice e grandioso.
Aspetta. L’esperienza di dare non si risolve per forza in un essere servile. C’e’ una dignita’, nel dare, che il prendere non puo’ raggiungere. Siamo noi, con le braccia tese, sul ciglio dell’ultimo saluto. E io ti do il mio. Dal pugno chiuso cola il sangue, nel palmo batte ancora il cuore. Ricordo di averlo strappato e di non aver pensato per un solo momento ho perso qualcosa.
La gente si diverte con poco, non c’e’ che dire. Almeno questo e’ cio’ che penso alla fiera degli antichi mestieri, una sera, mentre davanti al forno c’e’ una fila incredibile e noi guardiamo la capra con indosso gli occhiali da sole. Glieli ha messi il pastore. Il pastore ha bevuto, e’ evidente, e si ferma a parlare con noi, che pensiamo di comperare due capre. L’avvinazzato ci racconta un fatto: gli hanno rubato le bestie. Ne ha solo poche, adesso. Una e’ quella. Quella che costringe in posa per una foto, interrompendo il discorso.
Il cane di N abbaia alla capra, la capra lo guarda di sbieco. Il pastore dice che e’ una capra muta, per quello non ha le corna. E’ cosi’ di natura, dice. E ghigna.
Poi, davanti al fuoco, S racconta di due animali, due pony, che stanno in una stalla piu’ avanti, una stalla improvvisata, a far vedere com’era una volta.
Inchiodata al muro, racconta, incombe sui cavalli la testa impagliata di un cinghiale.
Un terzo pony e’ in giro per le vie col padrone, legato a una corda, e quello lo fa girare in tondo, piegare il capo in una sorta di inchino e la gente sorride, addenta o compra un panino con prosciutto o nutella, o salsiccia grigliata al momento.
La vacca la vediamo alla fine. Sta chiusa in un piccolo recinto col vitello. Non ci fosse il recinto non andrebbe lontano. Al massimo si, ma solo se fosse un ladro a trascinarla. O qualcuno a comprarla.
Alla fiera degli antichi mestieri, una sera, penso che l’uomo e’ davvero un animale di merda.